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Paolo Baldacci. RICORDO DI WIELAND SCHMIED

By 01/05/2014Novembre 13th, 2018Notiziario e opinioni

Wieland Schmied ci ha lasciati dopo una breve malattia il 22 aprile scorso all’età di ottantacinque anni. Era nato a Francoforte nel febbraio del 1929, ma la famiglia si era ben presto trasferita in Austria inaugurando il suo destino di pendolare dello spirito tra le due nazioni e le due culture di lingua tedesca.
In Italia era conosciuto come storico dell’arte e soprattutto come cultore ed esperto di Giorgio de Chirico, ma in Germania e nel resto del mondo la sua fama andava ben oltre questi limitati confini. Egli era infatti uno dei rari esempi di una specie in estinzione, quella dei grandi umanisti capaci di dominare i più diversi campi dello scibile (Der Universalgelehrte, come la “Süddeutsche Zeitung” ha intitolato il suo necrologio). Figlio di uno stimato filosofo, Walther Schmied-Kowarzik, e di una scrittrice baltica di lingua tedesca, baronessa Gertrud von den Brincken, aveva studiato giurisprudenza e storia dell’arte, ma a lato dell’attività di critico e di saggista era stato poeta e scrittore di alto livello letterario, oltre che esperto ed esegeta di testi musicali. Per natura curioso e interessato a tutte le manifestazioni dello spirito umano, Schmied – e questo era il suo fascino inesauribile – non poteva limitarsi a coltivare un solo orticello. Di qui il suo interesse per l’arte contemporanea – da Marc Tobey a Francis Bacon, da Hundertwasser a Richter, da Wolf Vostell al drammatico e difficile Hermann Nitsch – e la sua attività “politica” di organizzatore culturale nella Germania degli anni ’60 – ’80.
Col suo primo incarico rilevante, la direzione della Kestner-Gesellschaft di Hannover, che tenne per dieci anni dal 1963 al 1973, diede il via a una serie memorabile di mostre e di cataloghi d’arte moderna e contemporanea che hanno arricchito la storia culturale della Germania postbellica, continuando poi la sua missione a Berlino come soprintendente della Nationalgalerie (1973-1975), dove lasciò il segno con una mostra epocale che riassumeva trent’anni di pittura “dopo il 1945” nei paesi tedeschi[1], e quindi, dal 1978 al 1986, come direttore del programma DAAD[2], la più gigantesca impresa europea di sostegno alle arti e alla cultura, nonché al ruolo dell’ex capitale della Germania ancora stretta nel blocco sovietico. Negli stessi anni faceva parte del comitato di Documenta 6 a Kassel (1977) e realizzava a Berlino, con Christos Joachimides e Norman Rosenthal, “Zeitgeist” (1982), la prima mostra che registrò la svolta allora in corso nell’arte contemporanea. Joachimides e Rosenthal, personaggi altrettanto leggendari del mondo curatoriale fine Novecento, rimasero poi i suoi partners prediletti in altre grandi imprese espositive di quegli anni.
Terminato questo ciclo e smessi gli abiti di impresario culturale della Bundesrepublik, Schmied si dedicò all’insegnamento universitario come professore all’Accademia di Monaco, gloriosa istituzione di cui fu poi rettore e infine presidente, e soprattutto a coltivare i suoi interessi di studioso e di scrittore, che col passare del tempo si concentrarono sempre più sulle esperienze fondamentali della sua esistenza così fuori del comune, non ultima delle quali l’incontro e la frequentazione decennale con Giorgio de Chirico. Consapevole che un patrimonio di ricordi e di riflessioni di tale importanza non poteva andare disperso, diede alle stampe nel 2008 un libro autobiografico di ricordi Lust am Widerspruch (Il piacere di contraddire).
Chi lo ha conosciuto e ha avuto la fortuna di ascoltarlo non può non ricordare la sua abilità di conferenziere e, ci sia concesso dirlo, la magia della sua parola. Non solo Schmied era capace di rendere semplici, evidenti e intellegibili i temi più complessi, ma, sempre senza fogli in mano e dopo una partenza in tono colloquiale ed affabile, immediatamente prendeva il volo e trasportava l’ascoltatore nei regni alti dello spirito, nelle regioni nobili della mente e dell’intelletto.
Questo miracolo, Wieland non lo riservava alle conferenze, alle inaugurazioni e al grande pubblico, ma lo ripeteva in privato, spesso in modo ancora più accattivante perché il suo discorso si arricchiva di aneddoti e di esperienze vissute, nel racconto delle quali la sua ironia e la sua comunicatività spiritosa e brillante si univano a una simpatia naturale e irresistibile.
Le sue responsabilità quasi trentennali di grand commis della cultura tedesca, esercitate per lo più in un centro nevralgico come quello di Berlino negli anni del muro e della guerra fredda, lo avevano posto a contatto con tutti i principali esponenti della politica mondiale, tra cui due presidenti americani, oltre che con numerosi artisti di grande importanza. Ricordo una sera di inizio estate, attorno alla metà degli anni Novanta. A Milano faceva un caldo insopportabile e lo invitai per la notte in una antica e fresca casa di campagna tra il Sacro Monte e il Lago di Varese. C’erano a cena pochi amici, più della sua età che della mia, di quella buona vecchia borghesia lombarda che sta scomparendo. Nessuno sapeva chi fosse, ma quando prese la parola, in inglese e in parte in francese perché nessuno era in grado di seguirlo in tedesco, affascinò tutti e si rimase alzati ad ascoltarlo fino alle due del mattino.
Aveva conosciuto de Chirico nel 1968, quando, come direttore della Kestner-Gesellschaft, era entrato nel progetto destinato a celebrare un po’ in ritardo gli ottant’anni del maestro con una mostra antologica a Milano a Palazzo Reale e al Kunstverein di Hannover. Di quel progetto difficile Schmied diventò subito l’ago della bilancia e il catalizzatore necessario. De Chirico veniva ufficialmente tirato fuori da un lungo periodo di deliberato e ufficiale disprezzo, nonché di ignoranza. Forse se lo era in parte meritato con le sue bizze, truffe e follie, ma certo non era la cultura ufficiale italiana la più adatta a negoziare con lui: il ruolo di Schmied divenne quindi importantissimo, e il suo approccio con l’artista fu scevro di ogni prevenzione, improntato a rispetto, massima considerazione e soprattutto onesta volontà di capire. De Chirico era contento di potersi rivolgere a un tedesco, e soprattutto a un uomo che per quanto molto più giovane proveniva da quella cultura filosofica e letteraria tardo romantica che egli aveva tanto amato. E ciò fu la base per la buona riuscita della mostra. In quell’occasione Schmied fu tra i primi a capire la qualità poetica e inventiva della tarda pittura neometafisica, allora appena iniziata e di cui a Milano e ad Hannover si ebbero le prime uscite ufficiali.
La sua esperienza con de Chirico Schmied l’ha raccontata più volte, e noi stessi ne abbiamo tradotto e pubblicato ampi brani in cataloghi delle nostre mostre. Rispetto alla storiografia italiana e americana egli ha avuto il grande merito di capire a fondo il rapporto dell’artista con la Germania e col romanticismo e di illuminare per primo nei dettagli il suo assorbimento non solo filosofico ma anche letterario di Nietzsche e di Schopenhauer. Della sua opera è stato un buon conoscitore, ma soprattutto è stato uno straordinario interprete della sua complessa personalità, che ha indagato con l’occhio dello psicologo, del poeta e dello scrittore. Negli ultimi anni i suoi interessi si erano ridotti, molti temi sembravano non interessargli più, ma de Chirico continuava a suscitare intensamente la sua curiosità.
Un’ultima cosa va detta di lui, perché ne ho avuto personale esperienza e soprattutto perché lo distingue da me e da molti di noi italiani.
Dovevo incontrarmi con lui a Monaco, non ricordo bene la data, forse il ’93 o ’94. Mi aveva dato appuntamento a Schwabing, vicino all’Accademia e alla sua abitazione, in uno di quei piccoli ristoranti italiani che piacciono tanto ai tedeschi e che noi snob cerchiamo assolutamente di evitare. A un certo punto fu necessario consultare un libro o vedere un documento e mi invitò a salire a casa sua, un piccolo pied-à-terre che usava quando era a Monaco perché già allora viveva prevalentemente a Vochdorf in Austria. Rimasi allibito dalla semplicità spartana e dalla povertà monacale della casa: in anticamera, su un portavestiti estendibile erano appese in fila le camicie, che evidentemente venivano stese ad asciugare in modo che si stirassero da sole, e un paio di giacche. Nessun mobile, nessun armadio, nessuna poltrona. Solo libri, dovunque e impilati nei modi più curiosi, persino il letto sembrava fluttuare su pilastri di carta stampata. Pavimento di legno disseccato e scanalato dai numerosi lavaggi, come quello delle scale di quelle vecchie case di Schwabing. Non ebbi modo di vedere altro e non ricordo altro ma sento ancora, a tanti anni di distanza, lo strano disagio che provai nell’immaginare quell’uomo, che sembrava nel portamento e nei modi un aristocratico del secolo scorso, che aveva una fama mondiale, una cultura immensa e un’età rispettabile, ritirarsi la sera nella sua piccola stanza priva di ogni comodità, come un giovane studente appena arrivato all’Accademia di cui lui era il presidente. Pensai alla forza di carattere di personaggi del genere; in tutta la mia vita ne avevo conosciuti solo altri due, e non italiani, un’aristocrazia spirituale rarissima, e provai una leggera vergogna per la mia incapacità di rinunciare alle comodità della vita.

Paolo Baldacci

NOTE

1 La mostra, Malerei nach 1945 in Deutschland, Österreich und der Schweiz (1974?), comprendeva per ovvie ragioni anche la Svizzera, paese estraneo al conflitto, ma il vero senso dell’impresa era quello di mostrare che il nazismo e la messa al bando dell’arte degenerata non avevano interrotto il filo della modernità nei paesi di lingua tedesca.
2 Deutscher Akademischer Austauschdienst / Berlin Artists-in-Residence Programme.